Comunque la si pensi, da almeno due settimane, c’è un nuovo inquilino a Palazzo Chigi. Ma la sfida che egli deve affrontare non è molto diversa da quella del suo predecessore.

 

Il primo fronte, inaspettatamente più complicato rispetto alle attese maturate dopo la scoperta dei vaccini, è quello che il primo ministro Draghi deve affrontare contro l’ospite indesiderato: la pandemia. Non essendo esperti della materia, sul tema ci asteniamo però da ogni commento e previsione.

 

Il secondo fronte, non meno rilevante, è quello che il governo deve fronteggiare contro il declino economico del paese. E su questo – dal nostro angolo visuale – qualcosa da argomentare c’è. Sebbene il tema sia stato trattato, da almeno un decennio, nei Rapporti annuali dell’IRPET, è bene ripetersi. Specie se è ancora culturalmente dominante – nel pensiero economico e nella prassi politica – la tradizionale ricetta. Quale?

 

Più flessibilità e meno vincoli al libero agire dei mercati. Conti pubblici in avanzo primario, cioè più entrate che uscite al netto della spesa per interessi sul debito. Riduzione del perimetro dell’intervento dello Stato e degli enti locali. Avanzo commerciale, infine, per controbilanciare la carenza della domanda interna. Ha funzionato, tutto ciò?

 

Venticinque anni, quasi ininterrotti, di avanzo primario ci consegnano per l’intero paese un tasso medio annuo di crescita dell’economia reale prossimo allo zero (+0,6% fra il 1995 ed il 2019) e un rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo (+134% nel 2019) da sorvegliati speciali dell’Eurozona. D’altra parte se un Paese ha un tasso di crescita del PIL nominale inferiore al costo del suo debito pubblico, il rapporto tra debito pubblico e PIL può crescere anche se il suo avanzo primario (cioè, la differenza tra le entrate fiscali e la spesa pubblica al netto degli interessi) è positivo. Un po’ ce la siamo cercata, quindi.

 

Circoscriviamo l’analisi all’ultimo decennio e fermiamoci al 2019, prima dell’avvento del Covid 19. Prendiamo come base di riferimento il 2008, che precede l’ingresso del paese nella successiva fase recessiva (2009-2011). In questo arco temporale, in media annua, il Pil è diminuito, a valori concatenati con anno di riferimento 2015, di circa 4,7 miliardi. Tale cifra è un saldo fra un valore medio annuo negativo – pari a 9,0 miliardi – nella dinamica della domanda interna e un valore medio annuo positivo, di 4,3 miliardi, nella variazione della domanda esterna. L’avanzo primario ha depresso la domanda interna. Ma l’avanzo commerciale non ha compensato quella caduta.

 

I consumi, a prezzi concatenati, si sono mediamente contratti nel periodo di quasi 2,7 miliardi per anno: 745 milioni in meno a causa della flessione dei consumi delle famiglie e 1,9 miliardi in meno per effetto del calo della spesa della PA. Clamorosa la flessione degli investimenti, pari a 6,4 miliardi in meno l’anno, di cui 4,7 nella componente privata e 1,7 in quella pubblica. Risultato: nonostante l’aumento della domanda estera netta, il valore del prodotto interno lordo è sceso ogni anno di 4,7 miliardi.

L’impronta delle politiche economiche ha quindi perseguito un modello di sviluppo, a gambe asimmetriche, che non ha dato però i frutti sperati.

 

Da un lato il mix fra austerità dei conti pubblici e moderazione salariale ha frenato la domanda interna. Dall’altro, l’avanzo commerciale perseguito puntando su flessibilità e basso costo del lavoro, non ha compensato la carenza della domanda interna. Avrebbe potuto farlo, ma solo in presenza di una consistente caduta dell’import e quindi di un netto freno ai comportamenti consumistici in direzione di una austerità degli stili di vita. Uno scenario possibile forse in un regime totalitario, molto meno in uno democratico. Per ogni euro di avanzo commerciale ne abbiamo invece persi 2,3 di domanda interna. Il risultato è la decrescita di questi anni. E la stagnazione da almeno venti anni.

Da dove ripartire? Verrebbe da suggerire, non per impuntatura ideologica ma per mera osservazione di quanto accaduto, dal rilancio degli investimenti pubblici e da un riequilibrio fra le componenti interne ed esterne della domanda.

La soluzione può non piacere. Destare preoccupazione. È legittimo. Persino comprensibile, se si pensa all’inefficienza della pubblica amministrazione in certe parti del paese. E alla debolezza progettuale della sfera pubblica, mortificata da anni di depotenziamento nelle risorse di capitale umano e finanziarie.

Ma continuare dentro la cornice mainstream della austerità, sperando che diventi una ricetta espansiva e puntare sull’avanzo commerciale, senza una discontinuità nella dinamica degli investimenti pubblici e dell’occupazione nel pubblico impiego, per colmare un divario ormai netto con gli altri paesi europei, significa consegnare il paese ad una lenta depressione. Non solo economica.

Cambiare paradigma, quindi, per costruire le condizioni favorevoli ad invertire la caduta del reddito e dell’intensità di lavoro, ed aprire la strada in questo modo ad un successivo innesco degli investimenti privati. Questo servirebbe. Sapendo che non si esce dalla crisi senza il mercato. Ma che questo ultimo, nelle condizioni attuali, non è in grado di farlo in autonomia.

Abbiamo una grande occasione, l’Unione Europea che finanzia il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. La sfida è riempire questo strumento di contenuti miscelati con equilibrio: non solo riforme, quindi, ma anche rilancio della domanda interna. In particolare degli investimenti. Politiche quindi, non solo dal lato dell’offerta, ma anche della domanda. Speriamo che il buon senso e la moderazione prevalgano e frenino gli estremismi che hanno indirizzato le politiche economiche dell’ultimo decennio, e non solo, al mero perseguimento dell’avanzo primario e di quello commerciale. È un positivo segnale, da questo punto di vista, la sospensione del Patto di Stabilità e Crescita fino al 2022, anticipata nei giorni scorsi alle stampe dal Commissario Gentiloni. Un primo passo, importante, in attesa, si spera, di una revisione complessiva delle regole comuni di politica di bilancio dei paesi europei.



Autore: Nicola Sciclone