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Quando si parla di delocalizzazione emergono due atteggiamenti opposti: quello degli studiosi, che vedono il fenomeno come espressione di capacità imprenditoriale e quindi, anche, di competitività del sistema; quello di molti operatori locali (amministratori pubblici, rappresentanze sindacali,…) per i quali delocalizzare significa, in genere, perdere quote di produzione e di occupazione.
Molte di queste differenze di valutazione dipendono dai punti di vista (quello dell’impresa o quello del sistema produttivo), dall’orizzonte temporale preso come riferimento (breve o medio-lungo), dalle tipologie di delocalizzazione (alla ricerca di un più basso costo del lavoro oppure alla conquista di nuovi mercati di sbocco), dal fatto di considerare o meno anche la delocalizzazione in entrata.
Tra tutti questi punti di vista quello temporale è di primaria importanza e spiega in larga misura il diverso atteggiamento esistente nei confronti dei processi delocalizzativi. In effetti, sebbene non vi sia dubbio sul fatto che la delocalizzazione sia un ingrediente della continua trasformazione che accompagna nel tempo ogni sistema economico, nel valutare i suoi effetti sarebbe necessario confrontare la situazione in atto (nota) con quella che vi sarebbe stata in assenza del fenomeno in esame (ignota) e non, come spesso viene fatto, semplicemente con quella precedente la scelta di delocalizzare: in altre parole se un certo numero di imprese decide di trasferire parti del processo produttivo all’estero ciò che vediamo, rispetto alla situazione precedente, è la perdita di produzione ed occupazione, ma in realtà ciò che dovremmo stimare è ciò che accade rispetto alla evoluzione che avrebbe avuto il sistema se le imprese non avessero delocalizzato.
La delocalizzazione va inserita all’interno del secolare processo di divisione internazionale del lavoro che coinvolge non solo i diversi beni ma, sempre più, anche le diverse fasi di un processo produttivo, rendendo conveniente realizzarle in luoghi talvolta anche molto distanti tra di loro. È evidente come, all’interno di tale processo di continua redistribuzione dei ruoli produttivi, i diversi territori possono guadagnare o perdere sulla base della propria competitività; ed è altrettanto evidente che quest’ultima non può giocarsi solo sul fatto di mantenere all’interno del proprio sistema tutto quello che oggi c’è, ma piuttosto sul fatto di spostarsi via via sulle attività per le quali mostra di avere maggiori vantaggi comparati: il problema non è dunque la delocalizzazione, quanto il fatto di non essere in grado di sostituire le fasi nelle quali si perde competitività (e che quindi necessariamente verranno svolte da altri) con altre rispetto alle quali si dispone di fattori strategici per essere più competitivi.

Convegno organizzato da:
Provincia di Firenze – IRPET – Associazione industriali di Firenze – Camera di Commercio di Firenze – CGIL CISL UIL – CNA – Confartigianato



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Firenze